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​- MeTe - di Maria Cristina Fornari

Ignacio Matte Blanco ci ha resi familiari due modi ben distinti di vivere e sentire la realtà, che corrispondono a due diverse logiche: il mondo del pensiero, che utilizza la logica aristotelica ed è basato sui principi di identità e non-contraddizione, e il mondo dell’inconscio e del sogno, che utilizza una logica del tutto altra, una logica che non conosce la distinzione, la frammentazione dello spazio e del tempo, ma tende a una totalità infinita. Questa logica è propria della dimensione inconscia e onirica ma è anche la logica del pensiero emozionale: quest’ultimo deve necessariamente far ricorso a un’originale commistione di entrambi i linguaggi, quando tenta di descrivere – in modo esterno – qualcosa che alla logica è completamente estraneo. Tale interconnessione è anche quella che presiede alla creazione artistica – ciò che lo stesso Matte Blanco ha definito “incantesimo Valery” –, se è vero che i codici di quest’ultima sono densi, ambigui, frutto di pressioni contrastanti e la creatività scaturisce da un intreccio continuo e strettissimo, assolutamente peculiare, tra emozione e pensiero.

Forse è a questo che si riferisce Fabio Trisorio quando definisce la Polaroid “l’occhio del sogno”: un mezzo caratteristico per la sua staticità – dunque in grado, più di altri, di restituire la realtà, in virtù dell’istantaneità «che fa diventare la fotografia quasi un appunto», sosteneva già Luigi Ghirri nelle sue lezioni emiliane – ma che apre al contempo a spazi estranianti, inconsueti e per ciò stesso perturbanti.
Questa dimensione onirica nelle Polaroid di Fabio Trisorio è evidente. I suoi soggetti – cose, scorci, apparizioni disparate e singolari – sembrano venirgli incontro in maniera fortuita; ombre ed evanescenze dal grande potere fascinatorio sono lì per evocare, per aprire un pensiero. Non sono quasi mai oggetti manifesti; le cose di cui comprendiamo subito l’aspetto, quelle che somigliano, non appaiono mai: mentre l'apparente rende accessibile qualcosa che evoca il lato nascosto del visibile. Ecco allora che la raccolta MeTe diviene una Meta, o meglio, un anelito: lasciarsi sedurre da quello che Didi-Huberman chiamerebbe il disorientamento dell’accidentale, per intraprendere, come l’autore stesso rivela, «un viaggio verso quei luoghi che abbiamo scoperto nei sogni o nei pensieri, ma che non abbiamo mai avuto il coraggio di raggiungere veramente».
Ogni Polaroid di Fabio Trisorio è un fenomeno evenemenenziale. La sintesi di una sorta di visione nella quale la realtà non si lascia ritrarre ma dove, piuttosto, trascolora e sparisce per lasciare il posto a una traccia sognata di mondo metafisico. Talvolta con fanciullesca fiducia, più spesso dolorosamente, l’autore va in cerca del passaggio (MeTe diventa così anche un punto liminare) verso la “cosa in sé”, quel “cuore del mondo” che fonda e rende autentica ogni raffigurazione e che già Schopenhauer riteneva destinato all’artista. Nelle Polaroid di Trisorio la realtà è dunque necessariamente perduta: ma non con quella violenza che Jean Baudrillard assegna all’immagine – colpevole di sottrarre al mondo le sue coordinate reali e di renderlo perciò assente –; quanto piuttosto con la seduzione di ciò che si nasconde, ma che si lascia pudicamente scorgere da un occhio innamorato, attraverso il velo della rappresentazione e sotto le scarne dita della tecnica.

La fotografia che non voglia essere mero documento illustrativo o informativo non si esaurisce nell’oggetto di partenza, nel soggetto ripreso: il risultato finale, l’esito che contempla chi la scatta e successivamente chi la osserva, è un ulteriore tipo di realtà.
Emozione e pensiero, dicevamo, ma anche oggetto e intenzionalità di chi lo ritrae. La fotografia, nella sua perenne dialettica di buio e luce, di mondo incluso e mondo escluso, racconta a chi la sa leggere la percezione che il suo autore ha del mondo, la sua direzione verso un oggetto, direbbe Husserl, con evidente riferimento al mondo psichico. Non si possono allora passare sotto silenzio gli elementi di scrittura interni ai lavori di Trisorio: le alterazioni cromatiche, certe profondità implicate, certe inquiete densità. E gli oggetti che ritrae, minimi, apparenti, che si rivelano insostituibili nel chiamare in causa interi mondi. La sua sensibilità, che in numerosi suoi lavori si traduce in un sapiente controllo della luce – che è come dire in un assoggettamento delle ombre –, qui si mostra come nostalgia, come desiderio che dà vita a una morbida figurabilità onirica.

Ma i sogni sono assolutamente egoisti, non sono fatti per essere capiti dagli altri. «Sognare significa: non so quel che mi succede», scriveva Binswanger, ed è difficile decifrarne da soli la cifra ontologica. Ecco che allora Fabio Trisorio si affida a Silvia Rosa e alla sua capacità di dare voce alle immagini, per colmare questa mancanza. Con la scrittura di Silvia Rosa, abile cesellatrice di emozioni, l’immagine onirica si trasforma in atto: MeTe assume così la forma di una narrazione, di un cammino, per un tratto comune, di due diverse sensibilità che, insieme, provano a raccontarsi e a raccontarci un mistero senza mai coglierlo completamente.
Le poesie di Silvia Rosa non sono didascalie alle immagini: piuttosto, ne scaturiscono potentemente e sono talmente abili da adattarsi al loro regime incostante. Adattarsi è però un verbo inadeguato: è una vera e propria dialettica quella che si instaura tra la lirica e l’immagine, senza alcun primato cronologico. Ogni fotografia è senz’altro l'occasione, per Silvia Rosa, di scatenare l’incalzante molteplicità delle sue ombre, frotta di spiriti che si addensano attorno all’immagine di cui sono al contempo il suono; ma non è forse un caso che la parola che maggiormente ricorre sia luce, segno – assieme ad altrove – di una spasmodica ricerca e del desiderio di risoluzione, che l’autrice condivide con il suo interlocutore virtuale, incontrandolo in uno spazio che non conosce estensione.

I temi sono dunque quelli a lei cari: il tempo, il recupero vagheggiato di una dimensione originaria, la nostalgia di un’identità, la mancanza di senso; l’amore, l'abbandono. Ma soprattutto il corpo, chiamato in causa nella sua interazione con l’anima, di cui è superficie tattile. Come di consueto, è il corpo a portare i segni delle numerose battaglie: ma se altrove la scrittrice si augurava di dissolvere le proprie dissonanze in “sola voce”, qui ha accondisceso a far diventare, in qualche modo, figura, le pieghe della propria anima. Corpo e anima sono i protagonisti assoluti di questo dialogo che è MeTe. Un incontro, se non impossibile, quantomeno irrisolto. E se è vero, come qualcuno sostiene, che l’amore “parla molto”, l’amore “è un discorso” (ancora Baudrillard), allora MeTe è anche un discorso d’amore.
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Maria Cristina Fornari si occupa di filosofia europea del XIX secolo; collabora all’edizione critica delle Opere e dell’Epistolario di Friedrich Nietzsche (Adelphi, Milano). Tra le pubblicazioni: Nietzsches persönliche Bibliothek, hrsg. von G. Campioni, P. D’Iorio, M.C. Fornari, F, Fronterotta u. A. Orsucci, Berlin/New York 2003; La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, Pisa 2006 (tr. ted. Die Entwicklung der Herdenmoral. Nietzsche liest Spencer und Mill, Wiesbaden 2009); “Redenzione dal tempo e dalla storia. Suggestioni intorno a Sacrificio di Andrej Tarkovskji”, in: Fenomenologia del mito. La narrazione tra cinema, filosofia, psicoanalisi, Lecce 2006; „Sogno e son desto. Al di là della logica del ‚vero-falso’ e la dimensione onirica della realtà in Alain Resnais”, in: Il reale falso. Filosofia e psicoanalisi leggono cinema, Lecce 2007; „Von Natur aus gut“: Schatten Gottes und Neuroethik, in: Der Tod Gottes und die Wissenschaft, Berlin/New York 2010.

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